Anche quest'anno è stata la splendida e suggestiva cornice del Castello Feudale nel centro storico di Ardore a ospitare sabato 20 luglio 2019,
la cerimonia di premiazione della Seconda Edizione del Premio Letterario Nazionale "Città di Ardore", organizzato dall'Associazione "Orme di Cultura".
L'evento condotto da Maria Teresa D'Agostino, ha visto la presenza sul palco di ospiti di tutto rispetto, provenienti da ogni parte d'Italia.
La giuria composta da Anna Maria Deodato (Presidente), Patrizia Stefanelli, Beatrice Bumbaca, Daniela Ferraro, Lorenzo Spurio, Enrico Del Gaudio, Elvio Angeletti, Ugo Mollica, Paolo Landrelli e Don Tonino Saraco ha lavorato con molta serietà, obiettività e competenza sulle numerose liriche ed opere iscritte al Concorso che sono risultate di altissimo livello artistico.
Di seguito i vincitori delle cinque sezioni in concorso.
Si aggiudica il primo premio Il destino di un poeta scritta da Vittorio Di Ruocco (Pontecagnano)
Si aggiudica il primo premio "Chi friddu chi faci stasira" scritta da Paolo La Cava (Fabriano)
Si aggiudica il primo premio Ricordatemi così scritta da Flavio Provini (Milano)
Si aggiudica il primo premio L'essenza scritta da Barbara Caporicci (Bologna)
Si aggiudica il primo premio I filari della luna scritto da Maria Caterina Crupi (Grugliasco)
Una panoramica completa degli altri premi del concorso per tutte le sezioni è disponibile nel verbale di giuria
Piazzale Marando, 25
89037 Ardore Marina (RC)
Email: info@ormedicultura.it
La pietra è fredda sotto le tue spalle
e non ti basta un tetto di cartone
a mantenere vivo il sangue:
il sole è andato via da troppe ore.
Quel sole che non manca alla tua terra
a queste latitudini ti uccide.
E poco importa se le tue parole
erano fuoco acceso, erano amore
per la tua gente senza libertà.
Dalla tua penna intinta nel coraggio
nascevano milioni di soldati,
potenti, inafferrabili, feroci.
Erano grida di disperazione
piantate dentro i cuori dei tiranni.
Erano bombe, raffiche d’orgoglio
armi del popolo tradito,
macellato, ormai inerme.
Per poco non ti presero la vita
mentre cantavi la liberazione.
Ti vennero a salvare appena in tempo:
gli scannatori erano vicini
pronti a squartare ogni tua parola.
Poi su una nave marcia e senza onore
guidata da una torma di banditi
di uomini perduti, senza gloria
giungesti come un carico di stracci
su queste rive care alla speranza.
Spuntò un sorriso in mezzo a quel dolore:
i tuoi aguzzini erano un ricordo
pensavi di aver vinto il tuo destino.
Ma è andata la giustizia
chissà dove:
il mondo corre non si volta indietro
ed un poeta senza le parole
è come un treno fermo alla stazione.
La pietra è fredda sotto le tue spalle
e non ti basta un tetto di cartone
a mantenere vivo il sangue:
il sole è andato via da troppe ore.
Ricordatemi così, domattina
quando un fugace alito di tramontana
scendendo a valle sfoglierà petali di brina
dalla mia lapide cristiana.
Tenevo del vino d'annata, in cantina
olio vergine in anfore di vetro soffiato
miele d'acacia nelle conserve di cucina
le più gradite a ogni palato.
Non per me che udivo i passi dei forestieri
i silenzi di chi mugola senza parola
i piedi scalzi erosi dai sentieri
la questua afona di chi non ha gola.
L'olio e il vino li versai agli ultimi della masseria
concimai distese brulle di pianura
gioii a un fiore di loto nato per magia
sfidando il cielo bigio sul fango della paura.
Ebbi mani grandi per minuti semi
denaro il giusto per tanto cuore
sparsi il miele del perdono e fuggii gli estremi
di chi odiando eclissava il suo dolore.
Cristo mi insegnò le odi della fratellanza
e i suoi chiodi come puntelli della fede
mi legarono al legno dolce della speranza
che sostiene chi non sente, e chi non vede.
Ed io, fattore di un Dio senza nazioni
lavai i piedi ai disperati a fondo via
riempii scodelle che i timidi non allungavano
lottai l'astio e l'apatia come fossero malattia
facendomi medico quando i veri medici ridevano.
Non avrò le stigmate ai polsi e ai piedi
né le intercessioni rivolte a tutti i santi
né la gloria delle nicchie dei famedi
ma fui pio, senza remore né scusanti.
Il Verbo fu cardine del mio dire, del mio stare.
Ricordatemi così: prodigo, nel mio casolare.
Ti racconto l’infinito
dove i boccioli germogliano d’inverno
dove la profonda quiete dei campi
odora di inquietudine serale…
ti vedo perdere
tra le pieghe della lontananza,
mio dolce amore.
Tutto s’avvolge di mussola dorata
nel chiarore delle stelle
nel cielo illuminato
nel bianco indiscusso fiore ramato.
Sei dimora dei cieli
dimora dei giusti
nel grigiore della mente più cupa,
salto nel buio
per raggiungere te.
M’abbandono a questa greve aria
nell’impossibilità di resisterti
- supplichevole -
- geometrica -
- concentrica -
che imprigiona il tuo nome
e getta occhiate fameliche…
corrente d’impeto…
brividi d’essenza…
oltre limiti di sopravvivenza
con l’ardore di una sconsolata ricerca
nel cerchio infinito delle parti.
Giugno 1945.Condofuri, piccolo paesino in provincia di Reggio Calabria.
Sono le due di notte. Io e mia madre, con un "muccaturi" (fazzoletto) in testa e "nù fantali ca sacchetta" (un grembiule con una grossa tasca), ci incamminiamo per uno stradone che ci porta lontano dal paese.
Nell’aria solo profumo di terra inumidita, velato da un’inebriante essenza di zagara e gelsomino. Nel sottofondo ci accompagna Il suono della fiumara dell’Amendolea che, nella sua impetuosa discesa scrosciante tra le rocce, si scontra con le onde del mare. Superato il ponte, che divide Bova Marina da Condofuri, si aprono le braccia di un viale di abeti, con una strada dissestata, illuminata solo dalla fioca luce della Luna.
Dopo circa mezz’ora di cammino e alla fine di quel viale, appare davanti ai miei occhi uno scenario surreale. Filari e filari interminabili di cespugli ombreggianti dove, solleticati da una leggera brezza marina, piccole lucine bianche, portano il mio sguardo nell’infinito senza orizzonte, dove Il cielo e la terra sembrano un tutt’uno. Sembra che il cielo si specchi su quel fazzoletto di terra e gioisce per quel miracolo. Ghirlande di luci clandestine nascoste nella vallata, sembrano quelle stelle profumate, fiorite da acinosi racemi, baciati dalla Luna.
Stupita! Guardo gli occhi di mia madre…
Lei, mi pone il braccio sulle spalle e sussurra: - "Vidi figghia mia, nui simu fimmini basciati du Signuri,iddu ndi dessi li stiddi nti li mani,mi sentimu u so jiavuru, mi ndi sciorba la so luci, nti lu scuru di la notti. Nui, fimmini di Luna, toccamu li stiddi e li facimu jiuriri chi lagrimi vivi… Acchussì jiavuranu di sogni veri.
(Vedi, noi siamo donne privilegiate, figlia mia, il Signore ci ha dato la possibilità di toccare le stelle con le mani, di sentirne il profumo, di godere della loro luce, nel buio della notte. Noi femmine della Luna, tocchiamo le stelle e le annaffiamo di lacrime vive, così da renderle più profumate… Perché profumano di sogni veri).
"Varda, chistu è lu nosciu cielu!"(Guardati attorno, questo è il nostro cielo…)
"Varda comu lucinu !E nui, ’ca nmenzu, comu na maìa, nta li stiddi supra la terra". (Guarda come brillano! E noi qui in mezzo, come per incanto, tra le stelle sulla Terra).
Quel buio fitto all’improvviso viene squarciato dal rombo dei camion che si apprestano ad arrivare da Brancaleone e Palizzi. Carichi di donne e bambini. Le voci canterine delle "gelsominaie" squarciano quel silenzio, rendendolo quasi uno spettacolo immaginario.
Il camion si ferma. Saltano tutte giù dal cassone con un’agilità stupefacente, eppure era altissimo, quanto una montagna. I loro vestiti ingombranti con strati di sottovesti non rendono, sicuramente facile i movimenti. I capelli erano nascosti dentro dei fazzoletti e grembiuli enormi riavvolgevano gli ingombranti vestiti.
Si siedono nei bordi della strada e si tolgono le scarpe.
IO stupita dico a mia madre:
- Ma comu, pe trasìri nto fangu ndi ndavimu a cacciari i scarpi?
- Ma ndi bagnamu i pedi!
(Ma come, per entrare nel fango ci dobbiamo togliere le scarpe?Ci bagneremo i piedi!)
"Figghia mia, risponde lei, trasìri n’to fangu chi scarpi e comu trasiri nti na tagghiola pe surici".
"Cacciatìlli e veni cu mia, non ti lluntanari, ca nti stu scuru non ti viu".
(Figlia mia, entrare nel fango con le scarpe è come entrare in una trappola per topi. Toglile e vieni con me non ti allontanare, in questo buio, non ti vedo).
Tolgo le scarpe, le lego una all’altra con i lacci per non spaiarle e le appendo al legaccio del grembiule.
Mi incammino dietro di loro, In quel buio pesto e nel contempo, cerco con lo sguardo la presenza di qualche bambina. Ma non riesco a vedere.
Eppure ci sono, non sono la sola ad accompagnare mia madre! Farfuglia il mio pensiero.
Alcune "gelsominaie" sono basse di statura e mi confondono, si distinguono solo dal cesto che portano a braccetto, già pesante, li dentro c’è il loro bambino.
Le seguo con lo sguardo e vedo che poggiano quelle ceste in fila sotto una "bergamottara"(albero di bergamotto), quasi come se quella pianta con i suoi possenti rami e la sua folta chioma, potesse in qualche modo proteggerli dal "Sirinu"(vento gelido del nord).
Sistemate le ceste si affrettano a cercare il miglior "filaro", quello che sembra più pieno e si mettono a raccogliere…
"Vai e scegli il filaro più pieno, infilati nei cespugli e raccogli con me le stelle…Sogna e riempile. Profumeranno di te". Dice mia madre.
Mamma, aveva già scelto il suo…China la schiena, tira su i lembi del vestito e affonda i piedi nudi nel fango e comincia a cantare…
"Quandu ti vitti all’acqua chi lavavi/e lu me cori si inchiu d’amuri/calabrisella mia/calabrisella mia jiuri d’amuri…" ("Calabrisella mia", canzone popolare).Con lei si solleva nell’aria un coro di voci . Anime nude cominciano a volteggiare, tra tulle di rugiada. Dolci creature dai modi divini con gli sguardi nascosti nel buio. Sorrisi di luce danzano leggere su di un palcoscenico senza spettatori. Mi avvolgono i loro delicati movimenti e i loro canti. Tendo la mano mentre loro cantano, sperando che qualcuno la coinvolga in quella strana danza.
La tasca dei grembiuli si rigonfia piano piano. Dovevo raccogliere almeno 10.000 fiorellini per farne solo un Kg e prendere 25 Lire, che ci bastavano solo per comprare il pane.
Le mie manine sono piccole, saranno velocissime, almeno così dicono…
"Attenta solo a non sciuparli, altrimenti perderanno la loro essenza e il padrone ci punirà". Mi ribadì, mamma.
Scelgo il mio "filaro" e comincio a raccogliere…
Come per incanto ogni fiorellino che tengo in mano mi fa volare con la fantasia. Il suo profumo intenso mi ubriaca al punto che immagino di volare su quei cespugli come un aquilone…Vorrei cantare anch’io ed unirmi a quel coro di voci, ma non conosco quelle canzoni…
L’odore sta diventando quasi insopportabile…Mi penetrata nelle narici al punto da avere sensi di nausea. Sollevo la schiena e mi allontano dai filari, raggiungo la "bergamottara" e mi sdraio vicino ai cesti dei neonati…Sperando solo di riprendere un po’ il fiato.
Una "gelsominaia" si avvicina. E’ l’ora della poppata. Si siede accanto a me. Tira fuori il suo seno, dal groviglio di stoffa che l’avvolge e comincia a dar da mangiare al suo piccolo.
La guardo e le regalo un sorriso…
Lei mi dice: - "voi mangiari puru tu? Intra a cesta c’è na fetta di pani cu zuccuru,era mia, ma pigghiatilla!"(vuoi mangiare anche tu? Dentro la cesta c’è una fetta di pane con lo zucchero, era mia, ma prendila tu!)
Ho fame, prendo quel pane e mi sdraio sulle radici dell’albero. Mangio nascosta dalle mie mani, come se l’avessi rubato…
La "gelsominaia" non parlò più, la stanchezza l’aveva travolta…
Alzo lo sguardo e comincio a vagare nei miei sogni…Libero la mia anima nell’infinito di quei filari…
«…Ma, chi ha dipinto la notte gelida e cupa: senza strade, senza vicoli, quale regno di silenzio e solitudine? Un luogo invece, così popolato da cumuli di sogni, dove la Luna sentinella di quel cielo, con un soffio di luce, volge lo sguardo a quel popolo di stelle. Sembra un palcoscenico dove vibrano le corde di un violino muto e aleggiano le mani di un tempo vissuto. Dove sguardi dispersi tra una folla assente e tra i sorrisi smaglianti, si celano i loro pianti».
Io non ho paura del buio e da grande vorrei proprio fare la "stelliera". Si, Le chiamerò così, le "gelsominaie" come mia madre, "STELLIERE" quelle donne che sanno realizzare tutti i sogni delle signore…Sospira Maria, con i piedi nudi affogati di fango, il naso all’insù e tra le mani una fetta di pane con lo zucchero.
Il lancio di una sacchetto vicino la testa, interrompe il mio volo. Mi alzo con scatto indignato e vedo una sagoma, che si appresta a sdraiarsi sopra quelle radici, sbuffando mormora: «basta, sono stanca, non c’è la faccio più, voglio andare a dormire!».
…Cerco di focalizzare bene, ma nel buio è un po’ difficile…La Luna lascia intravedere delle mani piccole e ruvide, piene di tagli rinsecchiti dal fango. Toglie via, con uno scatto rabbioso, anche il fazzoletto dalla testa e noto dei capelli molto lunghi legati con due trecce arrotolate a "tuppu" (chignon). La voce sembrava quella di una bambina o forse speravo che lo fosse…
No, era una bambina vera…
Finalmente né ho conosciuta una...
Le rivolgo un sorriso e le pronuncio un semplice, ciao…
Si siede accanto a me, col tono ancora sopra le righe e mi dice:
«Tu chi sei?»
«Sono Maria e tu?»
«Sono Linetta, sei nuova?»
«Si, questa è la prima volta che vengo con mia madre! Tu invece sei qui da tanto?»
«Si, purtroppo! Lavoro con mia madre ormai da due stagioni… Sono brava, mi dicono tutti… so raccogliere quasi 5 kg al giorno, 50.000 fiorellini circa…»
«Accidenti! Che fortunata! Chissà allora quanti sogni sarai capace di realizzare…Io non sono riuscita a raccogliere neanche un etto!»
«Cosa? Sogni? Realizzare? Ma cosa stai farneticando? Certo che sei davvero strana!»
«Si, i sogni delle donne con le trine, i sogni delle donne coi cappelli e senza grembiuli…. Me l’ha raccontato mia madre. Ed io vi ho soprannominate "stelliere" le donne che realizzano i sogni…»
«Ah! ma tu da dove arrivi? Ma quale sogni! Qui non c’è possibilità di sognare né di far sognare, qui si deve faticare altrimenti il padrone ci bastona…Tu sei pazza!»
«Arrivo da Condofuri e non sono pazza, sono una sognatrice!» rispose Maria, con tono indignato. «Mia madre mi dice che con i sogni non si mangia, ma io mi sento felice quando riempio la mia giornata. Sai, Linetta io vorrei fare la scrittrice, ma non so scrivere e mia madre non mi può mandare a scuola per imparare, allora scrivo le mie storie fantastiche sulle nuvole, sul vento, sui cespugli, sul mare, sulle foglie, sulla terra… In tutto ciò che si può scrivere senza scrivere… Non è importante imparare l’alfabeto per imparare a scrivere, vedi? Io scrivo sugli aquiloni così le mie storie viaggeranno nell’infinito e tutti le conosceranno senza leggerle… E dimmi Linetta, tu un sogno c’è l’hai?»
«Pe sognari ci voli tempu, ed eu non l’haiu…» (per sognare ci vuole tempo, ed io non c’è l’ho)
Un colpo di tosse e si assopì… Quella fu la prima ed ultima volta che vidi Linetta.
"Maria! A finisti mi stai cu l’occhi all’ariu? Lavura, ca brisciu!"con voce soffocata per non farsi sentire dal padrone, mia madre.
(Maria! Hai finito di stare con la testa fra le nuvole? Lavora,è quasi giorno!)
Era vietato portare nei filari i bambini, ma l’esigenza di raccogliere la maggior quantità di fiori, costringeva le madri a sopperire con l’aiuto dei più piccoli e poi era quasi l’alba, stava per sorgere il sole, avrebbe rovinato il fiore…
«Mi hai detto di sognare, mamma, io lo stavo facendo!»
Mamma accenna un sorriso prende un fiore in mano, lo avvicina al suo viso e sussurra: «"Guarda figghia mia, i me sogni sunnu ‘ca intra,intra a sti jiuri,i dassu tutti i notti" (Guarda, figlia mia, i miei sogni sono qui dentro. Dentro questi fiori, li lascio tutte le notti). Ho lasciato custodito il sogno di far tornare tuo padre, dall’ infame guerra. In quest’altro, l’avere un pezzo di pane per voi "picciriddi" (piccolini)e i soldi per farvi una degna dote. In quest’altro ancora, "na bedda" (una bella) casa con un bel letto di lana e non di "scarfogghi" (foglie di granturco)… perché mi piacerebbe fare sogni silenziosi…"Intra d’iddi c’è u jiavuru di me sogni e li gocci di li…"» (Dentro di loro c’è il profumo dei miei sogni e le gocce delle mie…).
Una lacrima scivola sul suo viso cadendo dentro il fiore, soffocando la sua voce che finisce per sparire in quel silenzio. L’odore per magia, si intensifica inebriando l’aria che mi avvolge…
Io stupita sussurro col pensiero:«ma è una magia? I sogni custoditi in queste stelle profumano davvero!»
«Mamma, ho deciso, da grande farò anch’io la stelliera! Riempirò tante ceste, così realizzerò tutti i miei sogni…».
Mi accenna un sorriso, abbassa lo sguardo e dice:«Comu ti dissi aieri,sti jiuri, figghia mia, servono a realizzare i sogni delle vere signore, chiddi senza fantali, chiddi chi cappeddi in testa e i suttani di trina…Ignare che dentro ognuno di questi fiori ci sono anche i nostri…».
"Vai figghia ora, va cogghi chi to mani picciriddi, cogghi chiù di tutti e stasira cattamu na renga per cena e realizzamu u sognu di non mangiari chiù pani sciuttu". (Come ti ho detto ieri sera, questi fiori, figlia mia, servono a realizzare i sogni delle vere signore, quelle senza grembiuli, con i cappelli in testa e le sottovesti di merletto…
Vai figlia ora, vai a raccogliere con le tue mani piccoline, più di tutti e stasera compreremo un’aringa per cena e realizzeremo il sogno di non mangiare più, pane asciutto).
All’improvviso il cielo mi svela i suoi silenziosi prodigi e lingue di tiepida fiamma dipingono il rosa della mia amata aurora. Sigillo di un sogno che oggi, vola spensierato come un gabbiano di notte, tra i sentieri di ogni tempo.
Maria, una piccola "gelsominaia" di soli nove anni, orfana di padre. Racconta un fazzoletto di storia ingiallito dal tempo e sotterrato dall’indifferenza. Quel fazzoletto dove tante donne e bambine, schiave della fame e orfane della guerra, hanno asciugato le loro lacrime e hanno scritto i loro sogni.
Trovare uno di questi fazzoletti, ha acceso in me la voglia di svelare, come se il mio pensiero fosse inchiostro simpatico, tutte quelle parole e quei sogni, scritti nelle trame di quella schiavitù, intessuti come in una ragnatela. Riscrivere quegli sguardi proiettati in quei cespugli come fari nella notte, in cerca di un sentiero di libertà e raccontare: di anime livide sul selciato di un cammino, a piedi nudi per sentire i sassi appuntiti affondare nel logorio di quel breve percorso; Di gocce di sudore che scivolano sulla fatica di uno sguardo fisso, sul doloroso calpestio; E di una mano innocente Linetta, intravista ai margini della vita, che porge il suo saluto ad un viaggio di sola andata.
Col tremito nelle mani sollevo queste pagine polverose e respiro fino a sentire velare quel profumo come un dolce veleno, che penetra nelle viscere, lasciandomi stremata dai rigurgiti. Disgustata nell’Intravedere ai margini questi rintocchi di solitudine, che si trascinano a fatica In un pellegrinaggio, tra le cornici di un purgatorio, fino a quando la notte continua ad avvolgere le loro membra, in un’attesa stremante del giorno.
Grazie agli scioperi proclamati a Milazzo, nell’agosto del ’46 da Tindaro La Rosa, esponente della CGL, le cose cominciarono a cambiare. I salari delle raccoglitrici di gelsomini e di ulivi, di fiori di bergamotto, delle salatrici di sarde, aumentarono da 55 Lire nel ‘48 fino a 1050 al kg, negli anni ’70. Molte di loro però morirono di leishmaniosi, come Linetta, in tenera età…
Le "gelsominaie" scomparvero, ma negli archivi del tempo rimangono le prime lotte contro la schiavitù sulle donne.